Niccolò Cimaglia

Un cognome italiano; due famiglie consorti, originate dal comune stipite dei normanni dell’ Aquila Conti di Fondi. I Cimaglia vennero in Foggia nel 1500, donde un ramo si stabilì in Vieste ed un altro in Messina. – Coriolano, maestro razionale della Gran Corte nel 1340; Camillo prefetto della repubblica di Genova; Prospero maestro portulano di Puglia nel 1442; Nicola e Domenico Vescovi – Arma dei Cimaglia: D’ azzurro, all’ aquila spiegata di nero coronata d’oro, poggiata sopra tre monti di verde, moventi dalla punta, accompagnata nel capo da una stella d’argento. A parte le grandi figure dei due garganici, Pietro Giannone e Celestino Galiani, la famiglia Cimaglia di Vieste, prolifera di talenti, ebbe un ruolo di primo piano nel Settecento dauno con personalità di spicco nel campo civile, religioso, politico e culturale. Si dà per certo che i Cimaglia siano di origine abruzzese e precisamente molisana. Infatti nel 1683 vendettero il loro feudo di Boiano alla molisana famiglia Beltramo per ben 17.000 ducati. Inoltre G.B. Pacichelli nel 1703 ricorda nel suo Il Regno di Napoli che i Cimaglia emergono tra le famiglie più nobili della città di Foggia. Il capostipite Orazio merita una citazione preliminare quale fratello di Niccolò, vescovo di Vieste, e padre di Domenico, Natale Maria e Vincenzo, di cui si dirà oltre più distesamente. Orazio (1710- l7iì4), a sua volta figlio di un Natale, come si rileva dalla sua epigrafe funeraria, nella parrocchia di Gesù e Maria in Foggia, quale giureconsulto apprezzato fu nominato da re Carlo III «pauperum patronus in Apulo Quaestorio», ovvero patrono, avvocato dei poveri. Prerogativa divenuta tradizionale in famiglia per lo stesso ruolo assunto dai figli Domenico e Natale presso la Regia Dogana. Orazio da Vieste si trasferì a Foggia nel 1739 con l’intenzione di meglio tutelare e rivendicare alcuni diritti dì un patrimonio ereditario. È di quel tempo un suo andirivieni per ragioni amministrative, professionali e di studi per i figli: un intenso movimento pendolare tra Vieste e Foggia e soprattutto tra Foggia e Napoli. Cinque dunque le illustri personalità della famiglia Cimaglia: i due fratelli Niccolò e Orazio, e i tre figli di quest’ultimo, Domenico, Natale Maria e Vincenzo.

Fu un Natale particolarmente solenne quello che i viestani celebrarono nell’anno 1784, perchè da Roma pervenne la notizia che papa Benedetto XIV aveva nominato, dopo un periodo alquanto confuso, il nuovo vescovo di Vieste nella persona del monaco celestino Niccolò Cimaglia. La sua famiglia godeva di grande stima nella nostra città, dove si era trasferita da Foggia, in seguito al matrimonio di un Cimaglia con una giovane di un’altra nobile casata del tempo, i Fazzini. Da Natale Cimaglia, Dottore di Leggi, e da Geronima Chionchio, ambedue viestani, il 24 marzo 1712 nacque Niccolò Salvatore, che nella chiesa Cattedrale ricevette il Battesimo e poi, nell’Episcopio, la Cresima dal Vescovo Giuseppe Crisconio, nel primo anno del suo pontificato viestano. Una fanciullezza serena la sua, in un ambiente in cui si respirava aria di religiosità e di civile onestà. Fu imziato agli studi umanistici da precettori privati, fra i quali non dovettero, mancare i suoi stessi padrini, Domenico Gallegos al Battesimo e Giovanni Antonio Fioravanti alla Confermazione. Uomini probi, che non avevano seguito la moda del tempo, rimanendo immuni dal contagio delle novità che cominciavano a serpeggiare nella cultura e nei costumi di quegli anni. Essi erano concordi nell’educare il giovane allievo all’amore per i supremi valori, aiutandolo così a far maturare in lui la risposta responsabile alla chiamata del Signore. Nei censimenti che vanno dal 1719 al 1727, egli e indicato co­me chierico, nella sua casa, convivente con i genitori e gli altri fratelli. Verso i 15 anni, dunque, egli lascia la famiglia e la citta natale ed entra nel glorioso Ordine monastico dei Celestini, che era stato fondato nel 1246 da quel Pietro di Morrone, il quale poi fu papa per soli 5 mesi e lego il suo nome alla storia di Vieste, per avervi soggiornato, mentre cercava di passare in terre più adatta alle sue aspirazioni eremitiche. Fra i Celestini, che sino al 1657 avevano avuto un piccolo monastico nella nostra città, non mancavano le vocazioni viestane: un Padre Giuseppe da Vieste professa nel monastero del Morrone nel 1697 e poi c’era già un Cimaglia, l’abate don Orazio, un monaco che faceva parlare di se, per le spiccate doti di osservanza religiosa e di amore allo studio. Non è difficile pensare al suo intervento nella determinazione del giovane parente.

Comunque Niccolò veste l’abito bianco-nero morronese e comincia tra i Celestini il suo itinerario di formazione, che consisteva certo nella fedeltà assoluta alla Chiesa, nel desiderio di rendersi utile ai fratelli con una fattiva, se pur silenziosa, testimonianza di carità, ma privilegiava quell’esperienza mistica, che portava all’ideale di una esistenza incentrata nel mistero e nella teologia della Croce. II periodo di noviziato lo trascorse nel monastero di San Se­ vero e il curriculum dei suoi studi dura sino al 1735; il 5 marzo di quell’anno, ventitreenne, e ordinato sacerdote, a Napoli. In questa capitale diede pure inizio alla sua carriera di docente, che fu tutta un continua aggiungersi di nuovi incarichi e di alti apprezzamenti. Aveva cominciato ad insegnare filosofia e letteratura classica agli studenti del suo Ordine, ma subito la fama valicò i confini del reame e Roma lo reclama per cattedre più prestigiose e, di conseguenza, più impegnative. Ma anche la sua famiglia religiosa guardava a lui con grande stima, assegnandogli incarichi di responsabilità, sino a nominarlo Abate del monastero della SS. Annunziata di Taranto, carica che mantenne pero per soli due mesi, dal 10 ottobre al 16 dicembre del 1748, data della sua elezione episcopale. Benedetto XIV aveva ricevuto più volte lamentele dai Canonici della Cattedrale viestana, perché il vescovo Niccolò Preti-Castriota, adducendo vari motivi, aveva abbandonato la Sede dal 1729. Quasi un ventennio di sede vacante, durante il quale la città e la chiesa soffrirono disagi di ogni genere, mentre tornava a far capolino, per opera dell’arcivescovo sipontino Mons. Rivera, la sempre ricorrente proposta di inglobamento del territorio diocesano. Il monaco celestino Niccolò Cimaglia era ormai notissimo al Papa, che più volte lo aveva avuto predicatore nel palazzo pontificio e gli aveva già assegnato il delicato incarico di Qualificatore del S. Ufficio; sapeva il Papa che egli era di Vieste e che aveva tutti i requisiti per essere chiamato al servizio episcopale. Certo una tale promozione presentava un grande svantaggio, quello di lasciare Roma, la corte papale, l’amicizia dei cardinali e di dotti cattedralici, ma vescovo di Vieste significava altresì rendere non solo onore alla patria di origine, ma conforto e collaborazione in un momento critico della sua storia socio-religiosa.

Spesso si scherza sull’amore di patria e, barattandolo con il campanilismo, lo si umilia a livello di nocivo sentimento, mortificando quanti lo coltivano nel proprio cuore, accomunandolo all’amore che si porta alla madre. Benedetto XIV aveva ricevuto più volte lamentele dai Canonici della Cattedrale viestana, perché il vescovo Niccolò Preti-Castriota, adducendo vari motivi, aveva abbandonato la Sede dal 1729. Quasi un ventennio di sede vacante, durante il quale la città e la chiesa soffrirono disagi di ogni genere, mentre tornava a far capolino, per opera dell’arcivescovo sipontino Mons. Rivera, la sempre ricorrente proposta di inglobamento del territorio diocesano. Il monaco celestino Niccolò Cimaglia era ormai notissimo al Papa, che più volte lo aveva avuto predicatore nel palazzo pontificio e gli aveva già assegnato il delicato incarico di Qualificatore del S. Ufficio; sapeva il Papa che egli era di Vieste e che aveva tutti i requisiti per essere chiamato al servizio episcopale. Autentico viestano, Mons. Cimaglia accetta, anteponendo la città dei suoi natali ad ogni altra, pur santa, soddisfazione. E’ consacrato il 21 dicembre e, fatti passare i rigori invernali, agli inizi della primavera, fa il suo ingresso in Vieste, accolto da tutto un popolo che, tra le lacrime, acclamava il giovane vescovo concittadino. Questa esultanza veniva espressa in elegante latino dal Canonico don Cesare Basciani, che ebbe l’onore di pronunzia­ re il discorso di saluto nella Cattedrale. Il Canonico Basciani era lo zio dell’altro illustre figlio di questa citta, l’autore delle sue memorie storiche, politiche, ecclesiastiche, il Dottor Giuliani, che per la sua opera trovo proprio in Mons. Cimaglia lo sprone e il consiglio. E lo definisce nell’introduzione al libro «uomo dalla più desiderabile letteratura, e di cui mi era la conversazione al sommo grata». Erano passati 74 anni da quando papa Gregorio XIII, che aveva governato lui stesso questa piccola diocesi garganica, aveva pure dato a Vieste per vescovo un viestano, il francescano fra Anselmo Olivieri. L’operosità, lo zelo, la carità e tutte le qualità di Mons. Cimaglia sono subito impegnate nell’opera di ricostruzione morale e materiale della sua diocesi. Primo pensiero – come si riconosce anche qui il buon vescovo e il vero viestano – i lavori di restauro alla chiesa cattedrale e il ritorno del capitolo e del clero alla propria dignità. Con illuminata sensibilità verso le correnti artistiche fiorenti nella capitale del regno, applica nei restauri quello stile che, superando il barocco, si apre alle maniere più leggiadre di un roco­ co supernazionale. Fa il nuovo organo e la nuova cantoria, rifà il soffitto con i tre quadri e il suo stemma, che ancora oggi ammiriamo. Nuovo anche il trono vescovile. Nel 1754 completa la ricostruzione del campanile, che il terremoto del 1646 aveva spezzato a metà.

Consacra le chiese della città, ancora prive di questo titolo liturgico. Chiede per i canonici, tra i quali c’era anche un suo fratello, il privilegio della cappa magna e per tutto il clero istituisce la congregazione sacerdotale della Dottrina Cristiana. E’ del 13 maggio 1749 il suo primo editto perla disciplina del clero, un documento che mostra la sua paterna preoccupazione verso i sacerdoti, ai quali rivolge raccomandazioni e consigli, per la santità dei loro costumi e per la qualificazione del loro ministero ad utilità del popolo di Dio. Agli inizi di novembre dello stesso anno indice la prima Santa Visita, dalla quale deriverà la necessaria conoscenza di tutti i problemi che egli intende risolvere per il bene della sua chiesa. In quegli anni si contavano una cinquantina di preti e altri venti aspiranti allo stato sacerdotale. Per questi ultimi Mons. Cimaglia istituisce scuole di «Grammatica, Umanità e Retorica», aperte anche agli altri giovani del luogo e chiama ad insegnare docenti di grande valore, ospiti presso di se nell’episcopio, che pure aveva dovuto riparare nei gravi danni subiti nell’assedio degli Spagnoli del 1733. Questi professori, di matematica e di filosofia, di lettere e di lingue orientali, avevano l’esempio e la guida proprio nello stesso vescovo, che ritornò ad essere docente, per fare partecipi del suo vasto sapere i giovani concittadini. Con autorizzazione del Padre Generale dei Domenicani in data 25 maggio 1762 (A.G.O.P. IV 228, f. 22), erige la Confraternita del Rosario per la diffusione della devozione mariana. Ad un’altra confraternita viene demandata la cura di riparare e di abbellire «la chiesa di S. Maria di Merino, che dista quattro miglia dalla citta in una assai vasta pianura dove sorgeva l’antichissima citta di Merino». (Relazione per la Visita ad Limina del maggio 1752) Dietro sua richiesta, la chiesa viestana fu tra le prime ad ottenere dalla competente Congregazione Romana l’indulto di celebrare la festa del Sacratissimo Cuore di Gesù. Tra il 1758 e il 1759, con un ritmo costante di lavoro, introduce nel calendario locale le celebrazioni liturgiche per i Santi Ponziano, Felice, Massima e Modesta. Nel 1762 riordina la liturgia delle ore per la solennità patronale di S. Giorgio. E poi si impegna per la ripresa morale e spirituale dei suoi concittadini; una missione e predicata dai Francescani nel 1752 e un’altra e tenuta dai missionari lucerini del SS.mo Sacramento nel 1758. Tutta questa mole di lavoro non gli impedisce di rivolgere la sua attenzione ai fedeli laici, soprattutto a quella porzione del gregge di Cristo che versava in precarie condizioni economiche. Nella stessa relazione del 1752 egli assicura che funziona il monte di pietà, «frumentario», già costituito da un buon trentennio, ma da lui favorito e sollecitato ad assolvere alla tradizionale funzione assistenziale verso i contadini più bisognosi. Era purtroppo quello il tempo, in cui andavano sempre diffondendosi le riduzioni degli «usi civici», con le gravi conseguenze che ricadevano sui non abbienti, proprio mentre si verificava il fenomeno dell’incremento demografico. Pure a Vieste la popolazione di quegli an­ ni segna un sensibile aumento. Nel 1764 una violenta carestia, durata poi per due anni, si abbatte su tutta la Puglia, un flagello che rendeva ancora più urgente la soluzione di difficili problemi riguardanti e bonifiche e rimboschimenti. Più da vicino interessava Vieste il fatto che una parte eccessiva del territorio era tenuto a pascolo, con evidente discapito per l’agricoltura.

Il vescovo, che pure non aveva trascurato di incrementare la coltivazione dell’olivo nelle proprietà della Mensa, che aveva rinunziato alle rendite a lui spettanti, che aveva promosso dei cantieri di lavoro per la costruzione di nuovi locali presso l’episcopio, si trovava ora nella impossibilita di sollevare la miserevole situazione economica di tante famiglie, per lo più giovani e numerose. Pensa allora di sfruttare l’ascendenza di cui godeva la sua famiglia nel capoluogo dauno, dove ancora i Cimaglia avevano casa e incarichi. Si reca egli stesso a Foggia con l’intento di reperire grano, orzo, legumi, che accompagnati alla verdura che la terra viestana solo poteva ancora offrire, avrebbero salvato dall’inedia molti suoi figli e concittadini. La missione ebbe effetti sorprendenti, se, come si legge nelle cronache dell’epoca, le derrate fatte pervenire a Vieste furono tante, da poter essere cristianamente condivise con i paesi limitrofi. Ma per il buon vescovo ii viaggio non fu ugualmente benevolo. Come sempre accade, le carestie sono accompagnate da terribili malanni e Mons. Cimaglia ne fu contagiato durante la sua breve permanenza a Foggia. Nel vespro de] 27 maggio 1764 egli chiudeva la sua terrena esistenza a soli 52 anni, lontano dalla sua terra, per la quale tanto si era impegnato come cittadino e come vescovo. Dopo tre giorni pervenne l’annunzio ufficiale a Vieste e si ripeterono e si moltiplicarono le lacrime, questa volta non più di gioia, con cui i suoi concittadini lo avevano salutato nell’esultanza dell’accoglienza. Sedici anni di episcopato possono sembrare pur tanti, ma riempiono solo il cuore di nostalgia amara, quando si pensa a ciò che un vescovo della elevatezza umana e sacerdotale di Mons. Ci­ maglia avrebbe ancora potuto fare, se la sua vita non fosse finita cosi presto. Per anni e anni la sua opera continua ad incidere positivamente sul comportamento dei viestani, e i padri tramandavano ai figli la memoria di un vescovo santo, mentre la storia pian piano diventava leggenda.

Natale Maria Cimaglia

Domenico Maria Cimaglia

Vincenzo Cimaglia