Quest’ultima iscrizione, che fa parte del primo gruppo, risulta incisa su tutte e due le facce scoperte, di forma quadrata quella laterale rispetto al frontone del focolare e rettangolare quella prospiciente. Essa comincia dalla faccia quadrata, prosegue su quella rettangolare ed è formata di sei righe, tre per parte. Otto centimetri sotto l’ultimo rigo e parallelamente ad esso è tirata una linea incisa superficialmente che attraversa tutta la facciata. La parola Damatira si legge chiaramente, facendo comprendere subito che l’iscrizione è della stessa natura delle altre incorporate nella facciata della casa. La pietra, che venne rimossa dal posto in cui era per essere fotografata, è di un calcare di cava locale, che ha la proprietà di indurire rapidamente la superficie esposta agli agenti atmosferici senza subire col tempo degradazione apprezzabile. La sua forma è di un parallelepipedo rettangolare, regolare in tutto meno che in una parte, delle dimensioni di cm. 18 x 31, a sezione quadrata sul Iato più breve. Le prime tre epigrafi rischiavano, invece, di rimanere sconosciute o, peggio, di essere condannate per sempre dal grave sospetto di non essere autentiche, emesso contro di loro dal Whatmough. Ma lo studioso americano non aveva tutti i torti, dal momento che nè lui nè il Ribezzo erano mai riusciti a vederle, solo perché essi non erano mai venuti a Vieste per cercarle, come invece ha fatto il Parlangèli, il quale riuscì a trovarne una, ormai rotta in due pezzi, l’unica ancora esistente, che è considerata come il più importante documento linguistico dell’antica Daunia. Tutte le iscrizioni vennero in luce per la prima volta nel secolo scorso, come riferisce Emanuele Abatantuono in un suo diario. Egli scrive che “nel 1800, piantando la vigna vicino alla chiesa del Carmine Biase Abatantuono, furono trovate delle pietre con iscrizioni, di cui non si è potuto fare l’interpretazione, con molti cadaveri seppelliti nel terreno . . . “. L’esistenza di queste pietre, però, era da tutti ignorata e l’attenzione su di esse venne richiamata soltanto nel febbraio del 1921, quando venne in luce nella stessa località un’altra iscrizione dello stesso tipo delle precedenti. Lasciando da parte l’interpretazione secondo la quale le prime quattro iscrizioni costituirebbero un unico testo, scritto in una specie di greco dorico, “è assolutamente certo che la III e la IV iscrizione sono dei testi indipendenti tra loro, come del resto, da queste sono indipendenti le prime due. Si tratta, per quello che è dato capire, di dediche o di invocazioni sacre a tre divinità: Zeus, Demetra e Venere”. Il culto di Zeus e quello di Demetra sono largamente documentati presso le genti japigie. Del culto a Demetra si hanno sicure testimonianze in tutta l’area pugliese, dalla Daunia alla Peucezia, in particolare nella Messapia. Ma anche a Vieste doveva essere riservato un culto particolarmente intenso a questa divinità, il cui nome, spesso accompagnato da diva, è frequentemente ripetuto. Zeus appare da solo nella VI iscrizione, ma è da credere che essa sia incompleta e cl1e la seconda parte del testo sia stata o rotta o levigata. Se poi si potessero riunire la I e la II iscrizione in un unico testo, si vedrebbero invocati insieme, qui e nella III, come in una trinità: Zeus, Venere e Demetra. Esaminando le varie forme con le quali si presentano questi tre nomi sacri (Zeus appare all’accusativo zon e al dativo due volte zie zei, Venere al dativo vene e all’accusativo venana, Demetra è sempre al dativo), ci si trova di fronte a una declinazione, specialmente per Zis e per Venas, diversa, almeno in parte, da quella del greco Zeùs o del latino Venus. Particolarmente interessante è l’accusativo venana che, se è giusta l’analisi del Parlangèli, va con la forma di accusativo (?) damaturena di una iscrizione di Ruvo, in cui appare anche il nominativo Damatura. E si potrebbe anche ricordare il dazeni letto sulle monete di Arpi. Per ciò che riguarda il nome dauno di Damatira, il citato studioso ritiene “che esso non sia soltanto il frutto di una pronuncia dialettale che ha modificato la voce greco-dorica Damàtra, ma che invece esso sia un elemento tipico illirico, che trova il suo corrispondente in quel Deipàturos che Esichio asserisce essere il nome di dio presso gli Stinfei, abitanti dell’Epiro”.