Giannicola Spina

via Giannicola Spina

Giovannicola Spina, nato il 28/12/1823, figlio del dottor fisico Domenicantonio e di Maria Michela Nobile, doveva essere un uomo basso e corpulento, perché quando nel 1848, secondo la legge sulla formazione della Guardia Nazionale, venne reclutato, come tutti i giovani dai 21 ai 35 anni con sana e robusta costituzione e un reddito da permettersi l’acquisto della divisa, presentò reclamo, adducendo la seguente motivazione: “Non ostante [fosse] ricco proprietario, ma siccome la Guardia Nazionale deve marciare come un soldato egli [per un mal congenito] soffre ai piedi, e non può marciare Aveva 26 anni, faceva parte del Decurionato e manifestava idee liberali, aderendo al gruppo che si riuniva nella farmacia del dott. Santi Nobile. All’epoca il paese era diviso in due partiti, quello dei Petrone-Cocle e quello dei Medina-Nobile: due gruppi di famiglie in lotta tra loro, innanzitutto, per motivi di interessi, contendendosi finanche la supremazia nel Decurionato. Il primo godeva di alto prestigio per essere parente di mons. Celestino Cocle, confessore di Ferdinando II e vantava protezione in Provincia; l’altro aveva un notevole seguito tra i galantuomini del paese. Gli anni 1847/ 48 furono anche difficili per il Re di Napoli, Ferdinando II, che non accettava il cambiamento della politica assolutistica e né intendeva stabilire legami con altri governi – pontificio, sardo e toscano – che, a differenza, mostrarono la buona volontà a porre rimedio ai mali comuni delle popolazioni suddite. Nel Regno, invece, permaneva il predominio della nobiltà e dei galantuomini, sordi alle rivendicazioni dei ceti contadini. La legge sulla eversione della feudali- tà, fatta dal governo francese era solo tollerata e non venne mai applicata in toto e mai furono quotizzate fra i contadini le terre demaniali. Anzi il ritardo spinse i “galantuomini”, ad usurparle ed acquisirle come loro proprietà private, vietando al basso ceto l’esercizio degli usi civici (spigolatura, pascolo, legnatico, raccolta della manna e della pece…).

Queste stesse condizioni socio-economiche erano diventate pesanti e disastrose in gran parte dei paesi del Regno e il popolo, che ne soffriva, iniziarono a dare segni di insofferenza e ribellione. Al processo che seguì, furono posti sotto inchiesta 76 individui, che, però, dopo il ricorso alla Corte di Appello di Trani, furono tutti assolti. Fra questi erano: Vincenzo Medina, Carlantonio Nobile, Carlo Bosco, i fratelli Giovannicola, Michelino e Raffaele Spina, Pasquale d’Errico, Michelino Foglia, Gennaro Colletta, Gaetano Naccarati e Francesco Colletta, mentre la Gran Corte Criminale di Lucera li aveva processati come cospiratori miranti a cambiare forma di governo; citando principalmente Placido Coppola, Sanvincenzo Nobile, Pasquale Petrone, Giovanni Trepiccioni, Giambattista Foglia e Vincenzo Abruzzini, che più degli altri si distinsero nel proclamare la repubblica e nel voler piantare l’Albero della Libertà. Si è voluto ricordare questa pagina della storia di Vieste, perché molti dei personaggi citati vennero tirati in ballo nel funesto giorno del 27 luglio 1861, quando i cosiddetti brigantiinvasero il paese e sette di essi furono trucidati. Giovannicola Spina fu uno di quelli, mentre i suoi due fratelli, Michele e Raffaele, riuscirono a rifugiarsi nel Castello. Le loro case erano attigue, poste quasi di fronte all’attuale municipio, all’imbocco di via Marchese ed entrambi erano ben guardate dal Castello e difese da eventuali assalti dalla Guardia Nazionale. Giovannicola, però, si lasciò convincere da un certo Michele Giordano che gli disse che “il miglior mezzo per sfuggire all’ira de’ briganti era, quello di presentarsi loro unitamente a lui, e calmarli con qualche sommetta di denaro e usci contro la volontà della moglie, Michelina Mafrolla. Non l’avesse mai fatto, perché ad un centinaio di passi dalla casa fu aggredito da una gruppo imponente di persone con pugni e calci. Un certo Domenico Mosca lo accusava di ‘avergli venduto il grano a sei ducati il tomolo, Matteo Soldano rinfieriva per il diritto usurpatogli nella precedenza che aveva sull’aia durante la trebbiatura del grano, mentre i fratelli di costui, Antonio e Domenico insieme al padre Vincenzo, gli addebitavano vari altri rancori. Furono inutile le sue preghiere e le proteste di onestà, chiamando a testimoniare Vincenzo Medina, il capitano della Guardia Nazionale, che non si era chiuso con gli altri nel Castello. Portato da costui e, interrogatolo, rispose che non sapeva niente e che non lo conosceva. Come iene fameliche quella massa di sanguinari si avventò contro il malcapitato Spina e ristretto al muro fu ripetutamente trafitto dalle baionette. “Novello Nazzareno, apre le braccia, tutto grondante di sangue, esclama: Uccidetemi subito, non mi fate più soffrire”. Uno dei briganti con un colpo di accetta gli fracassò il cranio, facendogli schizzare fuori le cervice. I sanguinari non contenti lo buttarono sopra una catasta accesa in Largo S. Marco. Alla morte seguì lo scempio, “come selvaggi antropofagi principiano una ridda satanica attorno al fuoco, con grida di gioia, movimenti di gambe ed oscenità indescrivibili. Un tale Diurno di Mattinata vide il corpo arrostito, si caccia una coltellina, si appresta al cadavere e ne distacca un polpone, che si mette a mangiare facendone fiero pasto di quelle misere carni!!! Gli avanz1 raccolti furono buttati a mare.