Fratelli Cocle

via Fratelli Cocle

Altri due uccisi dai briganti in quel triste giorno del 27 luglio furono i fratelli Ferdinando e Giuseppe, figli del medico Francesco Cocle e di Laura Petrone, nonché nipoti di mons. Celestino, arcivescovo di Napoli, già confessore di Casa Borbone. Dalle testimonianze rilasciate al giudice Casale sia dal Padre che dai fratelli d. Luigi e d. Pasquale, entrambi sacerdoti, si può ricostruire ciò che avvenne in casa Cocle. Alle prime ore del mattino un gran gruppo di persone “si presentarono sotto la di loro casa, posta in via Judeca, gridando ‘Cacciate le bandiere bianche, accendete i lumi, ed aprite le porte’. Si ubbidì immediatamente, ed il loro palazzo aperto si viddero entrare una mano d’armati condotti da un tale Matteo di Montesantangelo, ferito alla tempia. Costui appena entrato in casa domandò armi, e sulla risposta che di li a poco gli sarebbero state consegnate, era sulle mosse di andarsene, ma sopraggiunto un tal Domenico De Finis di Vico, ma domiciliato in Vieste, si ristette alle costui ingiunzioni  nel fine di catturare in quella casa due birbanti Ferdinando e Giuseppe”. Alla cattura era presente anche un tale Domenico Mosca, che gridò loro in faccia “Mi avete fatto tanto, ed adesso lo piangerete. Viva Dio e Francesco II, adesso contiamo noi”. I due giovani, uno di 27 e l’altro di 25 anni, quasi nudi e legati furono portati nel carcere, affidati alla custodia di tal Domenico Pacillico. Ma non bastò soltanto la loro cattura, perché, subito dopo, quel tal Matteo, che fece la prima incursione in casa, vi ritornò con altri uomini “e con modi brutali minacciando sterminio e rovina, estorse duecento piastre e se ne andò, ma ritornato di nuovo più furibondo dimandò altre quattrocento piastre che pure dal D. Francesco furon date sulla speranza di salvarsi i suoi figli. Non solo intascarono il denaro e, su istigazione di Domenico Mosca presero biancheria, tre orologi con le rispettive catene d’oro ed altri oggetti di valore.

Non sazi alle quindici “facevano ritorno di bel nuovo, guidati da un tal Vincenzo, di cui si ignorino il cognome e la patria, il quale portava quasi ad aiutanti di campo il disopra nominato Matteo, Pasquale Bisceglie, Leonardo brigante, un tale detto Miano, un altro detto Scavo che Trovi, ed un terzo detto Mangiarutti insieme a Domenico De Finis e Leopoldo Ricci di Vieste. Costoro pretendevano dj [ducati] cinquemila per salvare i catturati, a qual’uopo gli furono sborsati tre mila colonnate”. Alle ore 22 ritornarono, chiedendo altro denaro. Con la mediazione di don Teodoro Masanotti, che qualche momento prima aveva confessato i due disgraziati fratelli nel carcere, quei briganti si accontentarono di altri dj Duemila, tra monete di oro e colonnate, di altra biancheria, oggetti di valore e di un cavallo baio dorato. Dopo tutto questo, le promesse di liberare i due giovani furono fasulle, perché di li a poco Ferdinando e Francesco furono fucilati insieme a Sante Nobile da Domenico De Finis. Più che del movente politico, qui bisogna convenire che si trattò di assassinio nudo e crudo, perché la famiglia era tendenzialmente borbonica e i briganti, che si dicevano tali, non ne tennero in nessun conto.