Cappuccini

via Cappuccini

È riferito al Convento di S. Maria degli Angeli dei Frati Cappuccini, situato sulla costa antistante il porto ed è uno degli ultimi conventi francescani fondato nella Provincia di S. Angelo. Un primo desiderio di avere i frati Cappuccini a Vieste risale al 1624, quando un comitato di illustri cittadini viestani si recò ad Isernia, dove in quell’anno si celebrava il Capitolo, cioè l’assemblea generale dei Cappuccini, per chiedere di fondare in Vieste un loro convento. Il padre Generale, Clemente da Noto, informato da padre Francesco da Tramonti, ordinò che si esaudisse quel voto, che, però, per diversi motivi non poté essere subito appagato. Dieci anni dopo, nel 1633, quando il Capitolo si riunì a Serracapriola, i responsabili del comitato, capitano Fulvio Rubino, don Natale Fazzini primicerio e don Antonio Pantaleo arcidiacono indussero, questa volta, il Sindaco Bernardino Mafrolla, a rinnovare l’istanza a nome di tutta la cittadinanza. Il Capitolo finalmente si decise ad inviare ai primi dell’anno seguente padre Francesco da Castelvetere e una quindicina di frati, i quali, giunti a Vieste dovettero discutere animatamente con i Conventuali e i Carmelitani, che già da anni qui risiedevano e che erano contrari alla fondazione di questo convento. Dovettero ringraziare il vescovo di Vieste, mons. Ambrogio Palomba, se l’8 gennaio potettero innalzare, a 200 m. dalle mura su uno sterile e assolato appezzamento di terreno, una croce benedetta dallo stesso vescovo, quale segno di possesso. La posa della prima pietra, però, avvenne il 1° maggio 1634, dopo che i Generali degli Ordini dei Conventuali e del Carmelitani ebbero dato il loro nullaosta. Il convento sorse tra mille difficoltà e senza alcun aiuto da parte delle autorità e dei cittadini. Solo i signori Fazzini, don Natale e Luca, dopo aver donato il suolo, furono prodighi con i frati dando loro denaro per l’acquisto di calce e di altro materiale necessario. Lo stile del convento è quello standard dell’epoca, assai simile a quello di S. Giovanni Rotondo e di Vico, ma di questi molto più piccolo.

I Cappuccini si fecero subito apprezzare per la loro umiltà, per il modo di consolare e assistere i cittadini in difficoltà e per la benefica azione di evangelizzazione, specie verso i contadini che vivevano nelle campagne. Quando nel 1646 il terremoto distrusse gran parte del paese, accorsero impavidi a soccorrere i cittadini restati sotto le macerie e il loro convento, resistendo alle terribili scosse, fu messo a servizio e rifugio dei tanti cittadini feriti e senza più casa. Come a Manfredonia, a Vico, a Rodi, anche qui i frati, che nel 1678 erano in undici fra laici e sacerdoti, per potersi difendere dagli improvvisi assalti dei Turchi, che spesso razziavano e depredavano i cittadini, furono muniti di una piccola armeria fatta di spingarde, archibugi e sciabole, per difendere anche la città. La chiesa, che fu consacrata dal Vescovo Kreaytter il 22 giugno 1698 col titolo di S. Maria di Costantinopoli, ha un interno con luce soffusa, che invita alla preghiera, al raccoglimento e alla meditazione. Presenta due altari: quello centrale dedicato alla Vergine e quello nella cappella laterale al Crocifisso. Sull’altare centrale campeggia, invece, il quadro di Giovanni De Lo Preite del 1641. È un dipinto, olio su tela (cm 357 x 250) che copre quasi interamente la parete e rappresenta la Madonna che allatta il Bambino Gesù, seduta su una nuvola e circondata da un coro di Angeli, mentre dal piano inferiore, S. Francesco d’Assisi, S. Giuseppe, il papa Urbano VIII e S. Antonio di Padova, tutti in estasi contemplano la scena della maternità. Il primo a schedare questo quadro è stato Antonio Gambacorta, sostenendo che è un buon esempio dell’arte della Controriforma. Fra l’altro suppone che la Vergine sia stata venerata con il titolo di “Madonna del latte” raccordandola alla “Panagia Galaktotrophousa” (la Tuttasanta Allattatrice), di tradizione greca e a quella di S. Luca come la “beata ubera, quae lactaverunt Christum dominum”. Dopo il restauro, effettuato nel 1987, da Michele Giove, la dott.ssa R. Gnisci, nel redigere la relazione tecnica, mette, fra l’altro, in evidenza la scena di fondo che presenta “la città in fìam.me e alcuni angeli, accuratamente tratteggiati, che versano acqua sull’incendio” e suppone che sia stato eseguito a scopo devozionale, perché “questa scena particolare fa pensare ad un avvenimento effettivamente accaduto: l’assalto saraceno subito nel 1554 dalla città di Vieste, durante il quale numerosi viestani furono decapitati nei pressi della Cattedrale e, secondo la tradizione locale, un pericolo maggiore fu scongiurato grazie proprio all’intervento della Madonna”. Sulla tecnica pittorica di Giovanni de Lo Preite, probabilmente di origine spagnola, ma di nascita viestana, si è espresso il giovane pittore di Vieste, Francesco Lorusso. “L’autore, egli suppone, ha seguito forse le tendenze pittori coreligiose molto diffuse in Umbria e in Toscana, ma dando un carattere tutto meridionale. Nel dipinto, grandioso nel suo aspetto, nullo è abbozzato: ogni tocco è regolato con magistrale perizia, l’impianto dei colori è omogeneo in tutte le sue parti, e la ricca cromia è ben distribuita sia nelle piccole che nelle grandi masse. Ma tale omogeneità non è resa con la stessa identica forza e identico slancio, pertanto,

Lo Preite ci lascia una testimonianza piuttosto controversa, per certi versi apprezzabile e per altri discutibile e non priva di ombre” Mette, inoltre, in evidenza due episodi significativi: “la Vergine con il suo corteo di Angeli e il gruppo dei Santi in venerazione, appaiono entrambi distinti lezione artistica. Inoltre il Bambino sulle sue ginocchia, insieme all’altro sorretto dall’angelo sulla destra, non gode di fortuna anatomica. Tutto il gruppo superiore è penalizzato da incongruenze esecutive e compositive. L’Arcangelo Michele e l’Angelo indicatore risentono di una lezione che poco si armonizza con l’insieme, mancando di continuità con la scena sottostante. Il San Giuseppe è la figura meglio riuscita, l’accostamento tra il giallo ocra del mantello e il bluastro della veste é mirabilmente eseguito. I restanti del gruppo denotano anch’essi pregevoli spunti tonali, soprattutto nella figura del Papa, dove l’ampia stesura del bianco della veste si accorda in schietta armonia con il rosso-violaceo del mantello. Il San Francesco ed il Sant’Antonio, posti alle estremità, sono accomunati dai toni brunastri dei loro sai, mettendo così in maggior risalto le figure centrali. Belli i quattro ritratti.” E conclude affermando che: “Alcuni luoghi della pala fanno ipotizzare un forzato richiamo a preesistenti iconografie locali” e, inoltre, accenna ad un particolare curioso: “il possibile autoritratto dell’artista che fa capolino tra i puttini del nimbo angelico”. Il Convento divenuto demanio dello Stato fu adibito per molti anni come caserma della Guardia di Finanza e ora, invece, restaurato, con il contributo del Comune di Vieste e del Parco Nazionale del Gargano, diverrà centro di informazione turistica e culturale.