Ricette del Gargano

Nel Gargano, agli inizi del secolo, quelli che potevano mangiare a sazietà si contavano sulle dita delle due mani, chi riusciva a cavarsela godendo dei resti dei banchetti dei ricchi erano un po’ di più, ma la stragrande maggioranza viveva nella miseria più degradante e abbrutita. Per questi ultimi vivere era una quotidiana scommessa con il futuro. Siccome l’ingegno umano aguzza i suoi tentacoli quando è messo alle strette, e qui era in ballo la sopravvivenza fisica, l’ingegno del garganico cominciò a lavorare all’impazzata, elaborando modi e strategie per non soccombere. Attraverso prove e tentativi, tramandati di generazione in generazione, egli s’impadronì di tutto ciò che era a buon mercato o, come nel caso della verdura selvatica, a portata di mano. Per rendere appetibili cose e alimenti che non lo erano escogitò varianti, aggiunte, commistioni tra diversi alimenti, così che alla fine anche il suo palato riuscisse a provare gusto per quello che mangiava. Partendo da alimenti semplici, alla portata delle sue tasche, inventò una cucina altrettanto semplice, ma così saporita, così gustosa e gradevole che le generazioni successive, stravolte da manicaretti e intingoli troppo elaborati, vi hanno attinto a piene mani, tributandole un successo che ancora non si spegne. Molti dei pasti che i garganici mangiano oggi sono il risultato degli sforzi intelligenti e disperati dei nostri antenati nel cercare di rendere appetitosi e quindi accetti al palato alimenti che per loro natura non lo erano. Noi abbiamo pensato di mettere insieme, per la memoria di quanti ver- ranno dopo, i pasti tipici di S. Nicandro e del Gargano. Ovviamente non tutti risalgono ai primi decenni del secolo, molti sono stati «creati» nel corso degli anni e risalgono fino a cinquanta anni fa. Non è possibile fare una netta distinzione tra i piatti più antichi e quelli più moderni. La differenza in genere sta negli alimenti semplici che compongono quelli più antichi di fronte a quelli più elaborati dei moderni. A questo punto riteniamo necessario dare alcune indicazioni di carattere generale che valgono per la preponderante maggioranza dei garganici dei decenni scorsi. Fino a poco tempo fa tutta la famiglia mangiava in un solo piatto posto al centro della tavola che nelle case più povere era sostituita da una sedia, a cui era stata tolta la spalliera, e le sedie da sgabelli. Non tutti avevano le stoviglie, le forchette e il cucchiaio erano sostituiti da stoviglie in legno, in genere ricavate da canne con due denti di legno. I pasti, pur essendo più o meno simili, spesso erano diversi da rione a rione e da mestiere a mestiere. Il pancotto, per esempio, che costituiva il pasto principe di ogni mensa, era condito dai pastori, non con l’olio, ma con la crema del latte, quella specie di panna che ne insaporiva a suo modo gli alimenti.

Un altro pasto molto praticato era costituito dai legumi che non costavano molto e che, data la loro funzione di ricca miniera di proteine, apportavano le calorie necessarie a un corpo in debito di carne. La carne, infatti, si mangiava solo in pochissime occasioni: a Natale, a Pasqua, a Carnevale, nei fidanzamenti e nei matrimoni. Per il resto era assolutamente bandita dalle tavole. Così il vino che si comprava a «carrafon», un bottiglione di 5 o IOlitri, che costituiva una riserva preziosa per le grandi festività e ricorrenze. E così anche la pasta che allora veniva genericamente indicata col solo nome di «maccarun» e consumata esclusivamente nelle occasioni ricordate sopra. L’olio era un altro elemento assente. Per una famiglia di 5 persone un litro d’olio doveva bastare per un mese. Le uova si potevano mangiare solo un mese all’anno e non tutti potevano permettersele. Il mese andava all’incirca da metà marzo a metà aprile Poche ne venivano consumate, le altre servivano per farne pulcini, quindi galline o galli da vendere per comprare vesti, attrezzi e semi per la campagna, qualche mobile per la casa. Finanche il sale era quasi bandito dalle tavole. Anzi esso era talmente prezioso che quando si stabiliva un contratto tra il padrone ed il bracciante, tra gli elementi del pagamento era sempre compreso un certo quantitativo di sale. Il sale, si sa, è forza purificatrice e la stessa Bibbia lo considera, in una nota, «simbolo di fedeltà e stabilità. In un pranzo di amicizia esso indica stabilità dell’amicizia». Di qui la grande importanza data al sale. Per il pane, che spesso mancava dalla tavola dei più poveri, si escogitavano mezzi ed espedienti per tenerlo lontano dalle mani e dalle bocche fameliche dei più piccoli. Anzitutto era regola generale che non si mangiasse mai pane fresco perché, data la sua fragranza, se ne consumava di più. Il pane fresco veniva tenuto nascosto sulle travi del soffitto o legato ad una corda che arrivava a una altezza tale da scongiurare la presa dei piccoli. Si impastavano pagnotte da 2, 4 o 6 chili che alla fine diventavano così dure che solo una fame sgangherata e crudele riusciva a renderle commestibili.

Brod chi f ‘nucchii   (brodo coi finocchi)
La carne, allora, come si è detto spesso, era presente sulle tavole solo in rarissime occasioni. Capitava però di mangiarne quando un animale moriva per un incidente o per morte naturale. In questo piatto la carne usata era quella meno presentabile, e meno appetibile, nel senso che, attaccata all’ osso (non esistevano allora abili macellai o tagliatori), non si poteva cuocere in altro modo. Il brodo di regola era somministrato ai malati. Le porzioni che daremo d’ora in poi sono riferite a due persone. Si faceva bollire la carne con gli odori, prezzemolo, cipolla e pomodoro. Quando la carne era a metà cottura si aggiungevano un paio di finocchi tagliati a listarelle.

Cappucc e ris   (cappuccio col riso)
Questa «specie di cavolo, che, come annota Zingarelli, fa come una palla», era un ortaggio molto usato. Sodo, quasi aspro al palato, acquistava un sapore speciale se insaporito nella cottura coo fior di finocchio; si digeriva facilmente. Accompagnava i garganici per molti giorni della settimana. Mezzo chilo di cappuccio, tagliato a listarelle e gr. 150 di riso. In un soffritto di aglio, olio e pomodoro si mescolano iI cappuccio e il sedano. Si aggiunge un poco di acqua fino a ultimare la cottura. A parte si lessa il riso che viene poi unito alla verdura. Qualcuno ci aggiungeva anche la patata tagliata a tocchetti.

C’catedd chi li f’nucchitt   (cicatelle coi finocchietti)
La pasta fatta in casa meriterebbe un capitolo a parte perché allora non ce n’era altra. Per questo quando si voleva, o doveva, mangiare la pasta, l’intera mattinata era dedicata al rito della sua preparazione. Nonne e mamme che ammassavano, davano ordini, spianavano col matterello, bambini che giravano attorno alle madri e ai tavoli, sporcandosi di farina, rubando pezzi di massa per mangiarla o farne figure (la plastilina di quei tempi), pentole d’acqua che bollivano, animali che entravano e uscivano da casa: questo e altro significava fare la pasta in casa. Bisogna sempre tener presente che allora esisteva la famiglia patriarcale, che comprendeva all’incirca tre generazioni e che era composta da molte persone. I «c’catedd» sono, come ormai tutti sanno, una forma speciale di pasta fatta in casa. Ci voleva una certa abilità, infatti non tutte le donne ne erano capaci. Bisognava saper maneggiare con delicatezza, e, nello stesso tempo, con decisione la punta delle dita sui pezzi di massa lunghi due o tre centimetri. I finocchietti sono quelli selvatici, ovviamente più saporiti. 300/400 gr. di cicatelle e circa 500 gr. di finocchietti. Si lessano i finocchietti in acqua abbondante, a metà cottura si versano i «c’catedd» e si fanno cuocere insieme, così il sapore dei finocchietti e il loro colore facevano diventare più gustosa e verde anche la pasta. Si scolavano e si condivano o con olio crudo, o con aglio e olio soffritto, con l’aggiunta di un pizzico di peperoncino. Lo stesso piatto può essere gustato con le rape e con «i tann d ch’cocc», la parte tenera delle piante delle zucchine (ch’cocc).

Ciaudedda ch ll’ova   (zuppa con l’uovo)
Questa che diamo è la versione nobile di un pranzo, che, il più delle volte, era composto da solo pane, sale e olio. Come si è detto nelle premesse un solo mese all’anno, e non a tutti, era consentito mangiare le uova. Di regola il piatto, che è uno dei più antichi, serviva, come tanti altri dell’epoca, a riempire lo stomaco e a scaldare il corpo perché, soprattutto se fatto senza uova, non poteva certo costituire un sano e corroborante alimento. Nella versione più semplice l’uovo veniva rotto e versato nell’acqua bollente. In quell’altra un poco più elaborata e più vicina ai tempi nostri si aggiungeva qualcos’altro. Per cui abbiamo tre specie di questo piatto: «ciaudedda verg’na», «ova rott all’acqua», «ciaudedda ch Il’ ova». Ma veniamo alle indicazioni: Ciaudedda verg’na: si lasciava bollire l’acqua col sale e si versava su fette di pane raffermo. Una volta ammorbidito si scolava l’acqua e si condiva con olio crudo. Ova rott all’acqua: questo piatto è in tutto uguale al precedente, solo che nell’acqua bollente si versava un uovo a testa. Si aspettava che l’albume coagulasse, lasciando il tuorlo morbido. Ciaudedda ch ll’ova: si preparava un soffritto di cipolle e pomodoro, aggiungendovi una quantità sufficiente a bagnare il pane. Si aggiungeva un uovo a testa e si versava tutto sulle fette di pane raffermo. Qualcuno insaporiva il piatto con aggiunta di olive nere.

Farnata   (polenta)
Non è vero che la polenta era un cibo esclusivo del nord. Anche i nostri nonni e i nostri padri ne hanno mangiato, certo non nella stessa quantità dei «polentoni»; ma sicuramente tanta da provarne anch’essi una leggera avversione. In un tegame si mettono a bollire acqua, olio, cipolla e sale. Al momento dell’ebollizione si versa piano piano la farina di granturco e poi si gira, fino a cottura ultimata.

Gghiet suffritt   (bietole soffritte)
Questa era una delle tante verdure selvatiche che allora i garganici raccoglievano nelle campagne e mangiavano cuocendole in mille modi, tutti un po’ differenti uno dall’altro. Certo sempre di erbe si trattava (che, oggi, date le diete ipocaloriche, hanno acquistato un inedito, nuovo, inestimabile valore), e con esse bisognava fare i conti. Si preparava un soffritto di olio, aglio e pomodoro. Si versavano le bietole (circa un mezzo chilo), aggiungendo l’acqua sufficiente per intingervi un po’ di pane.

Mulagnam af’dducc   (melanzane a fette)
La melanzana era un ortaggio che non conosceva ancora i fasti dei tempi più recenti. Un po’ perché, come si è più volte ripetuto, esse comparivano sulla tavola solo quando era la loro stagione, un po’ perché un certo costo l’avevano, le si cucinava, all’inizio, solo in questo piatto semplice, ma saporito. Nella versione «melanzane ripiene» e «al forno» di cui parleremo dopo erano necessarie le uova. E l’uovo era un lusso. Ma torniamo al nostro piatto. Erano necessarie due melanzane e due o tre patate. Si tagliavano a tocchetti melanzane e patate e si versavano in un soffritto d’aglio, olio, pomodori e un pizzico di peperoncino. A cottura ultimata o vi si intingeva il pane, o si scodellavano su fette di pane già preparate nel piatto.

M’nestr   (minestra)
Qui la carne c’è, ed è evidente che il piatto è nato a metà del secolo quando essa cominciava a comparire sulle tavole. La minestra è una zuppa di erbe in brodo di carne, che varia a seconda delle stagioni: maiale, pecora, manzo, capra, lardo.

Nguilla chi maccarun   (anguilla con la pasta)
Abbiamo già detto che la pasta era genericamente indicata col nome di «maccarun». L’anguilla è un pesce che spesso si affacciava nei piatti dei garganici perché molti di loro ne facevano commercio, data la vicinanza col lago di Lesina. In genere l’anguilla veniva accompagnata con le erbe selvatiche, o arrostita o fritta. Con la pasta diventa un po’ pesante e indigesta. Ma gli stomaci di allora, benché vuoti, erano capaci di digerire anche le pietre. E poi l’anguilla, con quella carne che se ben cotta, si scioglie in bocca, rappresentava un signor piatto per gente povera, ma dal gusto ancora intatto. In un soffritto di cipolla e aglio, con l’aggiunta di concentrato di pomodoro, preparato durante l’estate con essiccazione naturale al sole su graticci («cunserva»), si aggiunge una piccola quantità di acqua e si versa l’anguilla (una intera a testa) fino a cottura. Il tutto veniva scodellato sulla pasta cotta a parte.

Pan’cott d fogghia mmisck   (pancotto di erbe varie)
Il pancotto era il piatto principe dei garganici. Cucinato in tutte le salse e in tutti i gusti e con tutti i sapori, il più delle volte mangiato a cena, compariva nelle case di contadini, artigiani, braccianti, massari, curatoli, poveri in can- na. Non ci voleva un’arte sopraffina per prepararlo, anche se, come tutti sanno, spesso proprio le cose in apparenza più semplici richiedono una preparazione, una dedizione e una tenerezza fuori del comune. I suoi ingredienti non comportavano una spesa eccessiva. Per questo, e per il suo gusto che, se preparato da mani esperte, raggiungeva vette sublimi, ancora oggi troneggia sulle tavole del Gargano. L’amore che i garganici portano al pancotto non è mai venuto meno nei decenni, ed esso li contraccambia dando al loro palato il piacere di un piatto semplice, che unisce, nelle varie versioni in cui viene elaborato, il sapore delle erbe e degli aromi alla sapidità asprigna dell’olio garganico crudo. Le verdure, selvatiche o coltivate, variavano secondo le stagioni. Le principali sono: fogghia mmisck (verdura spontanea varia), rape, verze, piante di zucchine (tann d ch’coccia). In una pentola d’acqua si versava prima la verdura (circa mezzo chilo) e a metà cottura le patate tagliate a fette. A cottura ultimata si aggiungevano fette di pane raffermo, si scolava e si condiva con olio. Si usava accompagnare il piatto con cipolla cruda.

Pan’cott chfav e ch’coccia roscia  (pancotto con fave e zucchina rossa)
Quello dei legumi è un altro capitolo importante della cucina garganica. Non aveva la frequenta presenzialistica del pancotto ma gli stava subito dietro. In genere venivano cotti in una pignatta di creta e mangiati con un po’ di olio crudo e pane. Raramente venivano accompagnati ad altri elementi; forse perché la gente, nella sua secolare esperienza, aveva capito che essi portavano tante proteine e tante calorie da bastare da soli a riempire una giornata. Sentirsi la pancia piena per molte ore, era, in quell’epoca, un privilegio di pochi, e che solo pochi alimenti potevano dare. Tra essi c’erano appunto i legumi. La zucca rossa era un ortaggio che non sempre trovava estimatori, ma dati i tempi, non se ne poteva fare a meno. Si lessavano in precedenza circa 250 gr. di fave, si allungava il brodo con l’acqua e vi si versava la zucca gr. 300 tagliata a tocchetti. Si aggiungeva il pane raffermo e si condiva con olio crudo.

Pan’cott chfav e vurrain   (pancotto con fave e borragine)
La borragine era un’altra delle erbe selvatiche entrate nella cucina garganica. Cresceva in autunno e fino a primavera, e con le sue foglie carnose ma dolci al palato dava al piatto un sapore severo e consistente. Si procedeva alla stessa maniera del piatto precedente. Solo che invece della zucca si aggiungeva mezzo chilo di borragine.

Pan mbuss eh la ch’coccia roscia   (pane bagnato con la zucca rossa)
Il pane bagnato era una variante, ritenuta sempre un po’ spuria e non genuina, del pancotto. Tutto sommato, la differenza, dal punto di vista della cottura, era minima. Nel pancotto il pane veniva inserito direttamente nella pentola un attimo prima di toglierla dal fuoco, nel pane bagnato era il contenuto della pentola che veniva versato sul pane già sistemato a fette nel piatto. Di «pancott» e «pan mbuss» erano piene le pance dei nostri antenati. Questi due piatti, insieme ai legumi, dominavano incontrastati sulle tavole. La ragione principale era che gli ingredienti, semplici e alla portata di molti, riuscivano a dare con la loro armonia risultati il più delle volte superiori non solo alle aspettative, ma ad ogni ragionevole speranza. Un, altra differenza consisteva nell’olio che nel pancotto si versava crudo, mentre sul pane bagnato era compreso nella cottura.

Pan mouss ch ca ch’coccia roscia   (pane bagnato con la zucca rossa)
Si preparava un soffritto con olio, cipolla e conserva di pomodoro. Si aggiungeva una quantità di acqua necessaria per bagnare il pane raffermo già pronto nel piatto e vi si versavano circa cinquecento grammi di zucca rossa. D’autunno si aggiungevano anche le olive.

Pan mbuss chi cuquigghii   (pane bagnato con le telline)
Si preparava un soffritto di aglio e olio e si aggiungevano le telline (circa gr. 500). Una volta aperte si versavano sulle fette di pane.

Pan mbuss chi ranonchii   (pane bagnato con le rane)
Si preparava un soffritto d’olio, cipolle e pomodoro. Vi si aggiungevano un po’ d’acqua e circa gr. 500 di rane spellate (che qualcuno chiamava anche «criatur», creature). Il sapore, per chi supera il pregiudizio di mangiare rane, è di una squisitezza senza uguali.

Pan mbuss ch la cot’ca d porc   (pane bagnato con la cotica di maiale)
In un battuto di lardo, aglio e conserva, o pomodoro, si aggiungevano lenticchie, o cicerchie, precedentemente lessate insieme alla cotica. Si faceva amalgamare il tutto e si versava sulle fette.

Pan mbuss chi quaquarun   (pane bagnato con le lumache)
In un soffritto di aglio e olio, pomodoro e origano si aggiungeva un po’ di acqua e si versavano le lumache lessate a parte. Una variante al piatto era l’aggiunta di patate.

Pasta ch la r’cotta   (pasta con la ricotta)
Questo è un piatto non molto antico. La riprova è data dal fatto che è sparita la parola «maccarun» e al suo posto è comparsa la pasta. È semplice nella sua confezione, ma gonfia lo stomaco senza appesantire. Si lessa la pasta e si versa, scolata, sulla ricotta in precedenza schiacciata in un piatto. Come variante qualcuno aggiungeva, singolarmente o insieme, pepe, zucchero e uova.

Pasta chi vrocch’la   (pasta con i cavolfiori)
Anche questa è una delle tante varianti di paste con erbe, ortaggi, legumi, carne. In particolare coi cavolfiori la pasta lega in modo quasi perfetto. C’é una simbiosi, uno scambio di sapori che dà come risultato finale un piatto molto gustoso, molto digeribile, poco costoso e molto dietetico. Anche di questo piatto ci sono due varianti: condimento con olio crudo o con sughetto a base di soffritto di olio, aglio e pomodoro. Nella stessa acqua di cottura dei cavolfiori (circa 500 gr.) si lessa la pasta. A cottura ultimata si scola e si versa olio crudo o il sughetto.

Sparg chi maccarun   (asparagi con gli spaghetti)
Gli asparagi di cui parliamo non sono quelli che conoscono più di 50 milioni di italiani, cioè la quasi assoluta totalità. Sono asparagi selvatici, e precisamente il germoglio di piante spinose, che crescono in un breve periodo dell’anno, cioè dall’inizio della primavera fino ai primi caldi. Gli asparagi venivano colti da pastori che accompagnavano gli animali al pascolo, da contadini e da quanti altri ne conoscevano le benefiche e speciali peculiarità. Non crescevano e non crescono dovunque, ma in zone collinose, su terreni non coltivati e, una volta, si tramandavano di padre in figlio, come un tesoro nascosto e da non divulgare, i luoghi dove essi ai primi di marzo cominciavano a far capolino. Sono piccoli, fragili, ma saporosissimi. Per coglierli spesso si spellano mani e braccia e, non di rado, si è sfiorata la tragedia, perché appostate tra i rovi si sono trovate, semi-sveglie ma attente, micidiali vipere. Ma il piatto vale il rischio. In un soffritto di cipolle, olio e salsa di pomodoro si fanno cuocere le punte degli asparagi (circa 500 gr.). A cottura ultimata si condisce la pasta.

Sparg pan mbuss eh ll’ova   (asparagi con uova sul pane bagnato)
E’ una variante dei vari pan mbuss, ma anche in questo caso il particolare aroma e il tipico sapore degli asparagi danno un tocco originale al piatto. È un pranzo che si mangiava, e si mangia, a Pasqua, considerato che in quel periodo c’erano asparagi e uova. In un soffritto di cipolla e olio, con l’aggiunta di qualche pomodoro pelato, si versa un po’ d’acqua e si aggiunge la parte tenera degli asparagi. A parte si battono le uova con formaggio e prezzemolo e si versano nella pentola. Si fanno raffreddare e si versa il tutto sul pane.

Tallun
La necessità di mangiare almeno una volta qualcosa di caldo per tutta la giornata era soddisfatta dai «tallun», che ha molto in comune con la «ciaudedda», da cui ha preso gli ingredienti fondamentali, e che ha sviluppato con un piccolo colpo d’ala. Questa è la prova certa che il piatto ha origini più o meno recenti, quando una relativa serenità sociale ed economica da una parte consentiva di apportare nuovi ingredienti a pietanze vecchie, dall’altra, sbizzarriva la fantasia in espedienti che, tentativo dopo tentativo, daranno alla fine esiti più che godibili. In una pentola con acqua e sale si aggiungono due o tre spicchi interi di aglio, qualche pomodoro e un po’ di fiordi finocchio. Quando l’aglio è cotto si versano nella pentola fette di pane raffermo, si scola e si condisce con olio crudo. Qualcuno al posto del fior di finocchio aggiunge foglie di lauro, altri olive.

Tann d ch’coccia cu sugh   (foglie delle piante di zucchine al sugo)
Quello di utilizzare le varie erbe conosciute, selvatiche o coltivate, nei modi più svariati, era un modo per insaporire prodotti che altrimenti non avrebbero varcato la soglia della bocca. Resta, comunque, il principio già in precedenza notato, che i pranzi un poco elaborati non sono dei primi del secolo, ma vantano una creazione abbastanza posteriore. Anche qui la funzione di elementi in apparenza eterogenei ha dato luogo a un risultato finale di piacevole godimento. Si prepara un soffritto di aglio, olio, salsa di pomodoro, si fa cuocere e si aggiungono le piante di zucchine, gr. 500, precedentemente lessate. Nella stessa acqua di cottura si cuoce la pasta, che si condisce col sugo.

Verza a pan mbuss   (verza col pane bagnato)
È un’altra variante del pane bagnato. La verza era un ortaggio che nei primi decenni del secolo compariva spesso sulla tavola. Chiunque avesse anche un metro quadrato di terreno lo coltivava. Fu, quindi, del tutto naturale, unirlo al pan mbuss. In un soffritto di aglio, olio e pomodoro si versa una verza tagliata a pezzi e si lascia cuocere con l’aggiunta di un po’ d’acqua. In seguito il pasto fu più elaborato, vi si aggiunse una foglia di sedano, un pizzico di fior di finocchio, e, se c’erano, le olive nere.

Verza chi pid, recchii, muss e coda d porc   (verza con piedi, orecchie, grugno e coda di maiale)
Il maiale era l’animale principe delle famiglie, quelle, ovviamente, che potevano permetterselo. Lo si acquistava in tenera età e lo si faceva ingrassare fin quasi a farlo scoppiare. Poi a Natale si chiamava un esperto e lo scannavano tra gridi disperati dell’animale e, spesso, pianti e urla dei bambini che l’avevano allevato. Del maiale non si buttava nulla, neanche le setole che venivano usate per farne pennelli. Le parti meno nobili e cioè i piedi, le orecchie, il muso e la coda venivano cotte insieme alla verza: ne veniva fuori un piatto che spesso i commensali gustavano, disputandosi i vari pezzi e rosicchiandoli con piacere come cani con l’osso. Si procedeva allo stesso modo della «verza a pan mbuss». Prima di versarvi la verdura si mettevano le parti del maiale, che erano state conservate sotto sale, in un recipiente di creta o terracotta, per mantenerle commestibili il più a lungo possibile. Il più delle volte per togliere il sale che avevano immagazzinato le si tenevano a mollo per qualche giorno.

Vurrain nbrod   (borragine in brodo)
La borragine non aveva molti estimatori, ma almeno in un paio di piatti faceva la sua bella e onesta comparsa, Qui prende le veci della pasta e si allea, con risultati più che soddisfacenti, alla carne e al brodo. Si deve solo evitare che scuocia, perché perde molte delle sue qualità. Nel brodo di carne si versano circa gr. 500 di borragine. È indicata soprattutto la carne di tacchino.