Pranzi del Gargano

I pasti, tuttavia, erano allora più saporiti perché venivano cotti a fuoco lento sulla carbonella o al fuoco dei camini («u fucaril») tenuto acceso per queste incombenze e per dare luce e calore alle case. Gli utensili erano in genere di creta o di rame; chissà quante pignatte hanno cotto per la fame dei garganici i legumi o bollito di carne (di regola riservata solo ai malati). Le case erano misere: un solo ambiente diviso da tramezzi di legno o cartone, dove dormivano in promiscuità più famiglie di molte persone, due generazioni di familiari insieme ad animali (cani, gatti, asini, muli, maiali). Le pareti delle case erano annerite dal fumo dei camini e, di tanto in tanto, soprattutto prima di Pasqua, in occasione delle grandi pulizie, venivano imbiancate con calce viva, che serviva tra l’altro anche come potente disinfettante. Non c’erano vetri ma una porta di legno e una mezza porta che in genere fungeva da vetrina e riparava solo metà dell’uscio dal freddo. Essa serviva da sfogo e da valvola di sicurezza per l’ossido di carbonio del braciere, il fumo del camino, le puzze di animali e persone. Alla base delle due porte era praticato un buco, il cosiddetto «iattarul», che serviva a far entrare e uscire, di notte e di giorno, il gatto nelle sue scorribande predatorie e amorose. In questo modo questo animale veniva a godere di privilegi che nemmeno gli uomini potevano vantare. Un’usanza molto rispettata era quella di far mangiare a chi aveva parto- rito da poco il brodo di piccioni. Si portavano in regalo alla puerpera due piccioni vivi con fiocco rosa se era nata una bambina, celeste se era un bambino. Quando una volta al mese si procedeva al cambio delle lenzuola bianche si provvedeva a lavarle con una procedura che diventava quasi un rito. Si chiamava «la l’scfa». La «la l’scfa» era un lavoro che spesso comportava tre giorni interi per portare a termine il lavaggio delle lenzuola. Queste venivano prima lavate a mano col sapone in una tinozza poi, messe in un altro tino coperto da un panno spesso, che poi filtrava attraverso il panno. Dopo una notte si ripeteva l’ operazione, il mattino del giorno dopo, l’ ultimo e definitivo lavaggio a mano. Durante la «grande guerra» ad alcune donne fu dato l’incarico di confezionare calze e passa-montagne per i militari al fronte. Era una boccata d’aria per le sventurate casse familiari. Ma proprio la miseria di fondo non permetteva a quelle famiglie nemmeno di poter tenere acceso al centro della casa un braciere con un po’ di carbonella. Con le mani e il corpo intirizziti non si poteva lavorare. Il freddo bloccava il sangue nelle vene. Per non perdere il piccolo sostegno rappresentato dal lavoro a maglia, le donne si infilavano a letto, sotto le coperte e così, al riparo dal freddo, anche se im- pacciate e presumibilmente lente nei movimenti, preparavano i passa-montagne e i calzettoni per i ragazzi che morivano nelle trincee. Ne risentiva la produttività, ma per un periodo la fame era sconfitta.

Carcioff’la r’chiin  (carciofi ripieni)
Il carciofo costituiva un ortaggio di lusso, un po’ perché compariva e scompariva come una meteora, un po’ perché i pranzi che con esso si potevano preparare venivano a costare più degli altri, non potendosi mangiare da soli, o nei vari modi che la prosperità e abbondanza di oggi ha inventato. Il ripieno era di una semplicità e di una modestia che i tempi imponevano alle famiglie disagiate, che, come diciamo spesso, costituivano la quasi totalità della popolazione. Ingredienti fissi erano il pane raffermo sbriciolato, prezzemolo, formaggio, aglio, olio, sale e uova. Con questo ripieno si guarnivano tutti gli ortaggi o i pasti che lo richiedevano. In ogni carciofo, precedentemente lavato, pulito e aperto si versa un po’ di ripieno. In una teglia si dispongono i carciofi così preparati e si condiscono con acqua, olio, prezzemolo, aglio e formaggio. Si lasciano cuocere, prevalentemente al forno. Alcuni aggiungevano patate a fette.

Carducc che l’agnell e eh ll’ova  (carducci con l’agnello e le uova)
Era questo uno dei pasti delle grandi occasioni che, forse per rispetto alle festività in cui si mangiava, forse perché aveva il suo costo, non veniva più ripetuto nel corso dell’anno. Si cucinava solo il giorno di Pasqua e dopo di allora non aveva più diritto di presenza nelle case. Il pranzo aveva sapori che ogni palato accettava di buon grado, per cui resta tuttora un mistero il fatto che esso, anche nelle famiglie più abbienti di allora, o di oggi con una situazione economica diversa, trovi rare occasioni per essere ripetuto, oltre alla giornata in cui troneggia in tutte le tavole cioè a Pasqua. I carducci sono piante spinose, ma tenerissime che nascono spontanee nelle campagne incolte. Si lessano i carducci puliti e fatti a pezzetti; a parte si prepara un soffritto di aglio, olio e qualche pomodoro. Si lascia cuocere la carne di agnello con pezzi di ventresca salata nel soffritto e alla fine si aggiungono i carducci già lessati. Prima di portare in tavola si versano le uova battute con formaggio e
prezzemolo.

Fr’ttata d lampasciun  (frittata di lampascioni)
Non sappiamo chi, e dopo quanti tentativi, appurò che il cipollaccio, che il vocabolario Zingarelli edizione 1963 chiama «vampagiolo (pugl. lampascione)», era commestibile. E certo che da allora a S. Nicandro e in molte zone del Gargano e del Tavoliere esso costituisce un ortaggio che si può cucinare e mangiare in svariatissimi modi. La fantasia si è sbizzarrita e il bello è che il lampascione si lascia volentieri trattare da chiunque gli si accosti, è docile, accomodante, facile a tutti gli accoppiamenti, è, insomma, un elemento che, come si dice a S. Nicandro, «nn sconcia ma m’nestra». Oggi questo cipollaccio, che una volta gli estranei consideravano immangiabile o, tutt’al più, adatto solo a bestie, è venduto come alimento in tutti i mercati d’Italia e, pare, anche all’estero, dove, ovviamente, è stato esportato da pugliesi che lì hanno trovato lavoro e, spesso, una seconda patria. C’è solo da rimarcare che il lampascione, al pari dei legumi, riempi la pancia d’aria. Si lessano trecento grammi di lampascioni, a cottura ultimata si schiacciano. A parte si battono le uova con l’aggiunta di formaggio, prezzemolo e sale, che si uniscono ai lampascioni. In una padella unta d’olio si versa il composto fino alla cottura di una normale frittata.

Lampasciun che la carn  (lampascioni con la carne)
Questo è il classico «rot» (teglia) di carne e lampasc10m. E un piatto relativamente moderno considerato che in esso compare la carne. Nelle grandi occasioni, fidanzamento, matrimonio, Natale, Capodanno, o quando si invitavano ospiti illustri, questo pranzo era di rigore. Il sapore che i «lampasciun» trasmettevano alla carne costituiva uno dei maggiori piaceri del piatto. Oggi ai due elementi spesso se ne unisce un terzo: la patata. Ma sono varianti che accrescono la vitalità del lampascione, spesso a discapito del suo sapore più genuino. In una teglia si condiscono i lampascioni con la carne (circa mezzo chilo) con formaggio grattugiato, aglio, prezzemolo e qualche pomodoro, olio, sale e un poco d’acqua. Si lascia cuocere il tutto, possibilmente al forno.

Lampasciun ndurat e fritt  (lampascioni indorati e fritti)
È una ghiottoneria che tuttora ha molti estimatori. Certo non è un piatto per stomaci molto delicati o nei pasticci per gastrite, ulcera o altro, ma se non si hanno di questi problemi si può gustare per la fragranza e la consistenza dell’impasto. Si lessano i Lampascioni e poi si bagnano nel battuto d’uovo con un po’ di pan grattato. Si friggono in olio bollente a cucchiaiate.

Mulugram r’chiin  (melanzane ripiene)
E i! classico esempio dell’ortaggio che per essere mangiato e gustato viene ripieno del composto già descritto nel piatto «carciofi ripieni». Anche questo e un tipico pranzo sannicandrese, di cui sicuramente, almeno nella versione locale, può vantare la primogenitura. Si svuotano le melanzane e la polpa tritata viene aggiunta al ripieno tipico sannicandrese. S1 riempiono le melanzane e si condisce il tutto con acqua, olio, aglio, prezzemolo, pomodoro e patate a fette. Anche questo, piatto veniva portato al forno perché la sua cottura avvenisse lentamente.

Musciscka  (carne essiccata)
Uno scrittore fa risalire questa parola, che B. Cellini nelle sue memorie, «Vita», afferma di aver mangiato con gusto, e che già allora accreditava alla cucina pugliese, al latino misisula (specie di carne). Si tratta in realtà di listarelle di carne di maiale pecora o capra che essiccata e cosparsa di sale e peperoncino («diavulicchi»), si mangiava cruda o arrostita. Richiedeva, dati gli ingredienti, abbondanti libagioni. Oggi è quasi Introvabile, ma in qualche occasione si può mangiare.

Rot ch la c’ccutedda  (teglia con la testina)
E un piatto che non è completamente sparito dal1e tavole. Forse pochissimi, dagli ottantenni in su, ancora fanno cucinare dalle proprie mogli questo pranzo che una volta era un prelibato e poco costoso pasto. Non potendo comperare e mangiare la carne, si cercava almeno di sentirne il sapore. Ed ecco che si comprava la testa di un agnello o di capretto, la si divideva a metà e si piluccavano i pezzetti di carne rimasti tenacemente attaccati al cranio, il cervello, i bulbi oculari, la lingua e quant’altro desse l’idea di star gustando un manicaretto, non un osso con qualche rimasuglio di carne. Si procedeva allo stesso modo del pranzo già descritto con «lampasciun che la carna». Solo che qui invece del1a carne c’era la mezza testa.

Sausiccia sott la c’n’redda  (salsiccia sotto la cenere)
Allora, come si è più volte detto, il poco calore che nelle gelide giornate invernali riscaldava la casa, in cui, non dimentichiamolo, spifferi di vento venivano anche dai soffitti di travi e dalla porta senza vetro, veniva o dal focolare acceso (per chi aveva la fortuna di possederlo) o dal braciere pieno di carboni o carbonella. Il braciere era, in un certo senso, un oggetto di culto perché attorno ad esso si riuniva tutta la famiglia, nonni, genitori, figli e anche animali. È attorno al braciere che si raccontavano e commentavano i fatti del paese, disgrazie di famiglia, la miseria quotidiana, è attorno al braciere che i bambini apprendevano dalla voce dei nonni o dei genitori le regole di vita, attraverso fiabe, moralità, episodi vari o inventati apposta per loro. Il braciere forse allora costituiva quello che è oggi la tivù, un carbone domestico che teneva unita la famiglia e che, spesso, proprio come la tivù di oggi, conciliava il sonno a grandi e piccini. Tra l’altro, come nel caso in questione e in altri consimili di cui parleremo dopo, esso costituiva anche un ottimo modo per cuocere alimenti. Si avvolgeva la salsiccia prima in un pezzo di carta oleata e poi in un altro di carta gialla consistente, si rimuoveva il fuoco ricavandone un avvallamento e vi si poneva la salsiccia. Si copriva subito. Si capiva che la salsiccia era cotta quando un odore ficcante e gradevole si spargeva per la casa. Così buona e saporita era difficile mangiarla in altre occasioni. Sotto la ce nere calda si facevano cuocere anche i lampascioni o le patate, non avvolti però da carta o altro.

Sinn’p che l’anguilla  (verdura con l’anguilla)
Anche questo era un pranzo che si mangiava solo a Natale, né veniva mai ripetuto dopo di allora. In particolare, se le anguille si mangiavano anche in diverse occasioni, i «sinn’p» conoscevano un oblio lungo un anno. Nessuna delle famiglie sannicandresi ne mangiavano e ne mangiano dopo Natale. Si lessano i «sinn ‘p», che è una verdura della famiglia delle rape; a parte si prepara un soffritto di cipolla, pomodoro e olio, e si lascia cucinare l’anguilla. A metà cottura si toglie l’anguilla, si aggiunge un poco d’acqua e si lasciano insaporire i «sinn’p». Prima di portarli a tavola si unisce l’anguilla.

Sparg afrttata  (asparagi a frittata)
Gli asparagi che si mangiavano, e che tuttora si mangiano, nel Gargano, l’abbiamo già detto, sono diversi da quelli conosciuti. In qualsiasi modo vengono cucinati danno un sapore particolare agli altri alimenti con cui entrano in combinazione. Così è anche nella frittata. Si lessa la parte tenera degli asparagi e si unisce alle uova battute con il formaggio, il prezzemolo e un pizzico di pane grattato. Si procede come per una normale frittata.

Trippa chi patann  (trippa con le patate)
È un pasto che chiedeva molto tempo per la preparazione, perché le donne, non fidandosi dei macellai dell’epoca, sottoponevano la trippa, che, per antonomasia, si reputava sporca ed emanante cattivo odore, a continui lavaggi, impegnando quasi tutta la mattinata in tale incombenza. Si soffriggono aglio, olio, pomodoro e si aggiunge la trippa tagliata a pezzetti. A metà cottura si aggiungono le patate.

Turciunedd  (torcinello)
È un involtino con budella e interiora di animali, ma condito così bene e cotto in vari modi, che faceva leccare i baffi anche a chi non li aveva. Era, ed è, grasso per cui è sommamente sconsigliato a chi ha problemi di colesterolo o trigliceridi alti, ma, almeno una volta, è bene assaporarlo per capire come da cose, tutto sommato, di poco conto, i poveri di una volta riuscivano a trarre fuori pietanze di tutto rispetto. Anche questo piatto comportava una mattinata di lavoro. Si tagliavano dei quadratini di «rezza» e vi si deponevano le interiora (fegato, cuore, polmone), si condivano con prezzemolo, aglio, pepe e si avvolgevano con le budella. I torcinelli potevano essere cucinati in vari modi: con le palale e i lampascioni al forno, alla brace, e anche col sugo e gli spaghetti.

Vrucch ‘la cu baccalà  (cavolfiori col baccalà)
È un altro dei pasti preparati in occasione delle grandi festività, e precisamente a Natale. Però, a differenza degli altri, questo piatto veniva confezionato e mangiato anche dopo. Probabilmente la cosa si spiega col fatto che i cavolfiori e il baccalà erano presenti in molte stagioni mentre i «carducc» e i «sinn’p” avevano vita breve. In un soffritto di cipolla e pomodoro si lascia cuocere il baccalà precedentemente dissalato. A metà cottura si versano i cavolfiori e si lascia cuocere a fuoco lento. I tre pasti che seguono venivano mangiati al mattino e alla sera, serviva- no quindi da colazione e cena.

Acqua sala
Questo piatto che ancora oggi si mangia con piacere, con gusto sempre rinnovato, quasi con ingordigia, è di una semplicità estrema, ma amalgama nel suo insieme tanti elementi da farne un «pranzo» appetitoso. Si ammollano pezzi grossi di pane raffermo, se ne strizza l’acqua e si condiscono con pomodoro, olio, sale, origano e aglio. Questa è la ricetta originale, tramandata dai nostri avi, ma le varianti sono parecchie. C’è chi al posto dell’aglio mette la cipolla, oppure tutti e due, c’è chi al posto dell’origano ci aggiunge il basilico, o entrambi. Comunque, soprattutto nella sua versione originale, esso rimane un piatto succulento, che non stonerebbe sulle tavole dei non garganici. Si mangiava al mattino per affrontare sazi una lunga giornata di lavoro, o la sera per rifocillarsi dalle fatiche del giorno.

Pan, cita e ogghi  (pane, aceto e olio)
Quando non si aveva altro per riempire lo stomaco anche una fetta di pane condita con aceto e olio poteva dare l’impressione di mangiare qualcosa di sostanzioso per il proprio organismo.

Pan e alic salat  (pane e alici salate)
Anche questo era un pasto gustoso, anzi il sapore delle alici e il filino di olio cosparso sulla fetta di pane erano così trascinanti che non si sarebbe mai smesso di mangiare se ci fossero stati più alici e più pane. Ancora oggi uomini e donne di una certa età non disdegnano di mangiare, la sera, una buona fetta di pane con alici salate e olio. Certo essa allora era cena completa, oggi è contorno o stuzzichino.