Dolci del Gargano

Facciamo una piccola escursione sulla gastronomia garganica molto varia ma, di certo, genuina e ricca, secondo i dettami della dieta mediterranea. Quello dei dolci è un discorso che potrebbe risultare fuorviante. La miseria c’era, ed enorme e pesante, ossessiva e pervasiva. La gente non se ne sentiva accerchiata o aggredita per la semplice ragione che non conosceva, e quindi non immaginava, altra vita. La mancanza di prospettive, di alternative, le precludeva ogni orizzonte. Tutto era chiuso, tetro ed eterno. Ma è altresì evidente che in questa terribile quotidianità il Gargano sapeva, quasi per istinto, per bisogni biologici, che c’era un modo migliore di vivere la vita c’erano desideri e soddisfazioni che potevano essere esauditi. Quindi il dolce non era per loro qualcosa come un sogno impossibile in una vita di stenti, ma era, semmai, il coronamento quasi logico di un pranzo di grande occasione, o di ricorrenze religiose o civili. Certo anche qui va fatta una netta distinzione tra dolci elaborati, ricchi di spezie e altri elementi, e dolci semplici, magari grossolani nella loro non raffinatezza. I secondi chiaramente si possono far risalire ai primi del secolo, gli altri sono posteriori. A volte alcuni dolci, legati a consuetudini o a modi di vita di un tempo, sono del tutto scomparsi, a volte hanno conosciuto, come è nella maggior parte delle cose umane, singolari mutamenti. Prendiamo il caso di un dolce che può essere indicato come l’emblema, il simbolo del dolce di vari paesi garganici: il «pupurat». Esso non solo ha cambiato, nel corso degli anni, gli elementi con cui viene impastato, ma anche il nome, per le ragioni che dirò. All’inizio si chiamava «peperat» perché tra i componenti e’ era anche il pepe. Col passare degli anni il pepe è sparito e al suo posto sono subentrati cioccolato, più zucchero, miele. In pratica prima era un dolce piccante, dopo divento un dolce tout court.

B ‘scott   (biscotto)
Questo dolce era legato alla Pasqua. Si faceva un impasto di farina, uova, vino bianco, zucchero e semi di anice. Si confezionavano come taralli ovali e si lessavano in acqua bollente. Si lasciavano asciugare per un giorno, si praticavano dei tagli sulla superficie per farli aprire «skuppà» e si infornavano.

Cauzuncedd eh la c’ciata   (calzoncello con la ceciata)
È uno dei dolci scomparsi, forse immeritatamente. È legato a un tempo di povertà e con essa ha tolto il disturbo. La «c’ciata» in particolare, che era il ripieno, sostituiva la marmellata ed era a base di ceci, di qui il nome. Si lessano i ceci, si schiacciano, si condiscono con cannella, zucchero, miele. La pasta, fatta con uova e farina, era spianata e tagliata a rombi, riempita del composto di ceci e piegata su se stessa. Si friggevano nell’olio bollente.

Cazz ‘malat
Quando si preparava «u m’stcott», distillato di fichi cotti, si facevano cuocere nel liquido liquoroso tagliatelle fatte con acqua e farina.

Crust’l   (crustolo)
Questo dolce ha superato indenne il secolo. Da quando è comparso non ha mai mutato nome né ingredienti, né sapore. Viene mangiato a Natale e nelle feste di fine anno, il nome ha un’origine latina (crustulum significa biscotto) e, con vari nomi, è presente in molti paesi della provincia e oltre. La pasta è la stessa dei «cauzuncidd» (uova e farina), solo che ora si aggiunge un pizzico di bicarbonato. Viene stesa col mattarello il più sottile possibile, tagliata a strisce con la «ruciuletta», un arnese che la riduce a zig-zag e confezionata come un fiore. Le forme così ottenute si friggono in olio bollente e si condiscono con «mst’cott» di fichi o miele di api; qualcuno anche con zucchero, altri con zucchero e «mst’cott».

Fonte   (fontana)
Anche questo dolce era legato a una ricorrenza religiosa, e precisamente a Pasqua. Era una specie di ciambella, col buco in mezzo, di qui il nome. Si prepara un impasto con uova, farina, lievito, olio, buccia di limone e un poco di latte. Si mette in una teglia col buco al centro. Prima di metterla in forno si guarnisce con confettini colorati.

Frascatidd
L’acqua di risulta che veniva fuori dalla cottura del «sagn’nat>> con l’aggiunta di un po’ di zucchero, m’st’cott e ciccioli («sfring’l»), veniva utilizzata per fare i «frascatidd». Si preparava una specie di polenta dolce con quest’acqua e l’aggiunta di farina.

Mustacciul   (mostaccioli)
Chi ha fatto in tempo a mangiarne, come lo scrivente, ne ha un caro e nostalgico ricordo. Aveva la forma di un rombo e riempiva lo stomaco perché, a differenza di altri dolci, era pieno e consistente. La pasta era come quella della «fonte», solo che alla fine veniva tagliata a rombi e immersa nella glassa di cioccolato.

Pascka munescka o pescka munescka
La sorte, i nuovi consumi, le abitudini diverse hanno eliminato questo dolce che si confezionava con i fichi cotti che rimanevano dopo aver distillato «u m’st’cott», dolce liquoroso. Si aggiungevano farina, mandorle e spezie. Si
impastava il tutto fino a renderlo consistente. Si tagliava a pezzi e si lasciava asciugare al sole.

Pupurat
Qualcosa si è già detto di questo dolce di San Nicandro e Monte Sant’Angelo. Diamo adesso la ricetta, tenendo presente che essa varia, non da rione a rione, ma da famiglia a famiglia. Di qui l’impossibilità di darne quella definitiva. L’impasto era costituito da farina, zucchero, uova, latte, olio bucce di arancia grattugiata, m’st’cott, cannella, chiodi di garofano, vanillina o lievito. Si preparano dei taralli e si cuociono al forno. Oggi si aggiungono, a volontà, cioccolato, mandorle tostate, miele.

Sagn’nat
Quando si ammazzava il maiale, come si è detto, non si buttava niente, neanche il sangue, anche se si contravveniva, senza saperlo, a uno degli obblighi della Bibbia, che vietava di mangiare sangue di qualsiasi vivente. II sangue è vita e padrone della vita è solo Dio, di qui il divieto. «U sagn’nat» era un dolce in cui al sangue si univano lo zucchero, «u m’st’cott», il latte, cannella e uva passa, il tutto racchiuso nelle budella del maiale stesso. Si faceva cuocere in acqua bollente.

Tarali   (taralli)
II dolce era legato alla ricorrenza della Pasqua e, rispetto ad altri, era un po’ più complicato nella confezione. L’impasto era costituito da farina, uova e poco zucchero. Si confezionavano i taralli e si lessavano in acqua bollente. Si lasciavano asciugare per circa un giorno, si praticava un taglio sulla superficie per farli aprire e si infornavano. Erano simili ma non uguale ai biscotti.

Tarali nzuccarat   (tarallo con glassa di zucchero)
La pasta è la stessa dei taralli, tranne lo zucchero. La forma è più piccola e rotonda, e una volta cotti si immergono nella glassa di zucchero. Per quest’ultima si battono gli albumi a neve, aggiungendovi uno sciroppo di zucchero, fino ad ottenere un composto spumoso. Vi si immergono i taralli e si lasciano asciugare.